La casta si è dimezzata l’aliquota fiscale sui redditi

L’indignazione dei cittadini per i costi della politica si è finora concentrata sui benefici retributivi, economici e pensionistici degli onorevoli. Purtroppo non tutti sanno che quelli di natura fiscale sono ancora più scandalosi: la retribuzione complessiva di chi siede alla Camera è sottoposta a un’aliquota media Irpef del 18,7 per cento a fronte di un’aliquota media del 39,4 per cento a cui sono sottoposti i comuni mortali di pari reddito.  L’indignazione dei cittadini per i costi della politica si è finora concentrata sui benefici retributivi, economici e pensionistici degli onorevoli. Purtroppo non tutti sanno che quelli di natura fiscale sono ancora più scandalosi: la retribuzione complessiva di chi siede alla Camera è sottoposta a un’aliquota media Irpef del 18,7 per cento a fronte di un’aliquota media del 39,4 per cento a cui sono sottoposti i comuni mortali di pari reddito. Ecco come funziona: visionando documenti ufficiali ricavati dal sito istituzionale della Camera (ottobre 2013) è emerso quanto segue. Prendiamo un parlamentare che non svolge altre attività ed è talmente ligio da non saltare mai una seduta di Montecitorio. La voce più pesante della sua busta paga è l’indennità mensile, oggi ridotta a 10.435 euro, pari a 125.220 euro l’anno. Dall’importo vengono sottratte ritenute previdenziali per 784 euro al mese (9.410 euro l’anno) come quota di accantonamento per l’assegno di fine mandato, che è esentasse. L’onorevole subisce poi una ritenuta mensile per il trattamento pensionistico di circa 918 euro (11.019 euro l’anno). Dall’indennità parlamentare viene infine detratta una ritenuta mensile di 526 euro (6.320 euro l’anno) per l’assistenza sanitaria integrativa. Il trattamento del deputato è però arricchito da altre quattro voci con il segno positivo, che sono tutti benefit esentasse. La prima è la diaria, una sorta di rimborso per i periodi di soggiorno a Roma, che ammonta a 3.503 euro al mese (42.037 l’anno) che viene decurtata di 206 euro per ogni giorno di assenza. La seconda è il rimborso delle spese per l’esercizio del mandato, pari a 3.690 euro al mese (44.280 l’anno), che per il 50 per cento va giustificato con documentazione di spesa (solo per certe voci) e per il restante 50 per cento è riconosciuto a titolo forfettario. La terza voce non è perfettamente quantificabile e deriva dal fatto che il deputato è fornito di una serie di tessere per volare, prendere treni e navi e viaggiare in autostrada senza sborsare un soldo e paradossalmente un rimborso forfettario delle spese di trasporto (come se non viaggiasse già gratis) di 3.995 euro a trimestre (15.980 l’anno). La quarta voce è rappresentata da una somma a forfait mensile di 258 euro (3.098 euro l’anno) per le bollette telefoniche. Il pallottoliere dice che il totale fa 235.615 euro. Che, dedotte le ritenute previdenziali e assistenziali e i rimborsi spese documentati, si riduce a 189.431 euro. Ma per l’onorevole, come per magia, grazie ai trattamenti di favore architettati dal parlamento stesso, la base imponibile ai fini Irpef è di soli 98.471 euro e comporta il pagamento di tasse per 35.512 euro. Che corrisponde in concreto a un’aliquota media, appunto, di appena il 18,7 per cento. Qualunque altro cittadino italiano, un manager per esempio, che percepisse la stessa somma a titolo di stipendio e di benefit di analoga natura, si ritroverebbe con una base tassabile ai fini dell’imposta sul reddito di 189.431 euro e dovrebbe mettere mano al portafoglio per 74.625 euro di Irpef (con un’aliquota media del 39,4 per cento). A consentire questa incredibile iniquità è un’interpretazione alquanto generosa, da parte del parlamento, dell’articolo 52, comma 1, lettera b del Tuir (Testo unico delle imposte sui redditi), in base al quale non concorrono a formare il reddito le somme erogate a titolo di rimborso spese ai titolari di cariche elettive pubbliche (parlamentari, consiglieri regionali, provinciali e comunali) e ai giudici costituzionali, «purché l’erogazione di tali somme e i relativi criteri siano disposti dagli organi competenti a determinare i trattamenti dei soggetti stessi». Il rispetto dei principi di capacità contributiva e il divieto di disparità di trattamento rispetto agli altri contribuenti imporrebbe la limitazione dell’esenzione fiscale ai soli rimborsi spese effettivi, quelli cioè strettamente legati alle funzioni pubbliche svolte e corredati di documentazione. Ma il parlamento ha deciso diversamente. Ma non è finita. Siccome pagare l’Irpef al 18,7 per cento era ancora un privilegio da poco e per non farsi mancare proprio nulla, i parlamentari hanno pensato bene di trovare un escamotage per mettersi in tasca pulito pulito l’assegno di fine mandato, che dovrebbe invece essere sottoposto a tassazione in base all’articolo 17, comma 1, lettera a del Tuir. Ecco come hanno fatto. Ogni mese, lo abbiamo appena visto, l’onorevole subisce, proprio in vista dell’assegno di fine mandato, una ritenuta sull’indennità parlamentare di 784 euro. Trattandosi di contributi previdenziali, la somma viene dedotta annualmente dal reddito da tassare, nel presupposto che ciò avverrà poi al momento della consegna dell’assegno di fine rapporto. Non avviene così nel caso dei parlamentari. Disciplinando da soli il sistema di rappresentazione contabile della loro busta paga, gli onorevoli hanno creato un meccanismo perfetto, che rispetta formalmente la legge, ma consente di non pagare un centesimo di tassazione separata sull’assegno di fine mandato. Il trucco è tanto banale quanto efficace: mentre ad esempio per il dipendente pubblico comune, circa il 74 per cento dell’accantonamento è a carico del datore di lavoro, si tassa solo questa quota; invece nel caso del parlamentare la quota da accantonare per l’indennità di parlamentare è tutta figurativamente imputata a lui. E così non solo effettivamente non ha versato mai nulla nelle casse previdenziali ma non deve neanche pagare alcuna tassa.

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