La crisi USA trascina nel baratro anche il settore giornalistico

Il giornalismo americano ha una storia gloriosa: per oltre due secoli ha accompagnato e rafforzato il cammino della democrazia, esportando i suoi modelli in giro per il mondo. Ma ora è una realtà in crisi. L’Internet revolution ha portato non solo a una contrazione del numero dei lettori dei quotidiani e quindi degli introiti delle vendite ma ad una forte riduzione della pubblicità, che incide pesantemente sui conti economici dei media. Nel 2007 i redditi pubblicitari dei maggiori gruppi editoriali sono diminuiti in media del 7,9%. Nei primi sei mesi del 2008 gli incassi pubblicitari del gruppo New York Times sono scesi del 14%. I piccoli annunci si spostano su siti specializzati, come Craigslist, e gli inserzionisti si affidano in misura crescente ai clic dei siti web: più mirati, ma meno generosi. Naturalmente Google se ne avvantaggia, ma per ogni dollaro perso in pubblicità sulla carta stampata, i giornali incassano solo 14 centesimi in più per l’aumento sui loro siti. Risultato: i bilanci delle società peggiorano rapidamente, molti finiscono in rosso e le quotazioni a Wall Street ne risentono. Il gruppo della famiglia Suzberger, che possiede decine di quotidiani locali, oltre all’International Herald Tribune, al Boston Globe e al New York Times, ha perso in Borsa quasi il 40% dal febbraio di quest’anno e il 75% dal 2000. La sua capitalizzazione è ormai inferiore ai 2 miliardi di dollari. Stessa sorte, o addirittura peggiore, subiscono altre società editoriali. Persino la Newscorp, la holding di Rupert Murdoch (che l’anno scorso ha rilevato il Wall Street Journal per 5 miliardi dollari) è in forte ribasso a dispetto della tenuta delle attività televisive e Internet.
Per far fronte all’emergenza tutti i quotidiani degli Stati Uniti, pungolati dagli azionisti, hanno aumentato gli investimenti nel web e imboccato la strada dei sacrifici. La speranza? Che la riduzione dei costi aiuti a superare un’impasse acuita dalla tempesta finanziaria che ha ridotto il numero degli inserzionisti. Dal 1° gennaio di quest’anno i quotidiani hanno tagliato gli organici di 3mila persone. Al New York Times cento giornalisti sono stati prepensionati e al gruppo Gannett, che controlla Usa Today e altre 83 testate, sono stati annunciati mille licenziamenti. Due direttori del Los Angeles Times hanno perso la poltrona perché si opponevano ai ridimensionamenti. Intanto vengono diminuite le foliazioni per consumare meno carta. Si aumenta la percentuale di pagine dedicate alla pubblicità. Sempre per risparmiare, si accorpano le sezioni: dal 6 ottobre il New York Times metterà nello stesso sfoglio la cronaca cittadina e le notizie nazionali, in un altro l’economia e lo sport. Alcune aziende studiano anche come delocalizzare in India o nelle Filippine alcune lavorazioni grafiche. The SpokesmanReview di Spokane ha disdetto il contratto con l’agenzia Associated Press e lo stesso di accingono a fare altri quotidiani. 
Non è finita. Il Boston Globe vuole chiedere ai dipendenti una riduzione dei salari. Il San José Mercury News ha deciso di rinunciare all’edizione del lunedì, che apparirà solo sul sito. Alcuni gruppi ipotizzano di vendere i gioielli di famiglia: la Tribune Co. è pronta a rinunciare al palazzo del Los Angeles Times e gli azionisti che l’anno scorso hanno accumulato consistenti pacchetti del New York Times hanno suggerito di cedere il grattacielo di Manhattan progettato da Renzo Piano. «I tagli nei costi sono un meccanismo di sopravvivenza, ma non di crescita», osserva Tom Corbett, analista della Morningstar, mettendo il dito nella piaga. Il problema è che il rapido dimagrimento dei quotidiani, con le inevitabili ripercussioni sulla qualità delle informazioni, scoraggia ulteriormente i lettori. Si innesca un circolo vizioso senza soluzione. Due anni fa il New York Times aveva assunto Michael Roger con il ruolo di "futurologo ufficiale": avrebbe dovuto indicare le prospettive strategiche di crescita di lungo termine. Ma ha dato le dimissioni. Tempo fa c’era chi suggeriva un finanziamento pubblico per la stampa per preservarne il ruolo come pietra angolare della democrazia americana. Ma la tempesta dei subprime e l’emorragia di soldi federali per la finanza hanno reso improponibile una ipotesi del genere.
E allora? E’ inevitabile che la crisi porti a un consolidamento del numero di testate: oggi ce ne sono 1439 sparse in tutta l’America; tra pochi anni, dicono gli esperti, la cifra sarà dimezzata. Che faranno i superstiti per non precipitare nel baratro? Un’alternativa sarebbe la diversificazione: il gruppo del Washington Post trae ormai il grosso dei suoi utili, non dal quotidiano della capitale, ma dalle attività di formazione della Kaplan. Le altre società del settore però non hanno i mezzi finanziari per investimenti del genere. Resta la via del web: è più avara sotto il profilo pubblicitario, più soggetta alla concorrenza di protagonisti esterni come Google o Yahoo, ma avrà un ruolo sempre più centrale nel business dell’informazione. Il duello tra New York Times e Wall Street Journal è ormai più sul web che non nelle edicole. Tutti e due hanno potenziato e arricchito i loto siti, aggiungendo filmati, servizi interattivi e accesso alle banche dati. E naturalmente i clic si sono moltiplicati, specie da parte dei giovani.

fonte: www.repubblica.it

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