La fine del petrolio è vicina

Quando a fine 2004 il prezzo del petrolio è schizzato oltre i 50 dollari al barile, l'opinione pubblica ha cominciato a interrogarsi sulla sua disponibilità in futuro, e in particolare su quando la produzione raggiungerà il picco massimo per poi cominciare a declinare. Su quest'ultimo punto gli analisti son ben lungi dall'aver trovato un accordo, ma molti tra i più rinomati pensano che il momento sia adesso molto vicino.

Il petrolio ha modellato la civiltà del XXI secolo e ne ha influenzato ogni aspetto: economia, meccanizzazione dell'agricoltura, viaggi aerei. Quando comincerà a scarseggiare, provocherà un terremoto economico e darà vita a un mondo differente da quello che abbiamo conosciuto nel corso della nostra esistenza. E in effetti, parlandone, gli storici distingueranno tra prima (BPO) e dopo (APO) il picco del petrolio.

Le prospettive del settore possono essere analizzate con ottiche molto diverse, ma tutti – società petrolifere, consulenti e governi – si affidano alla modellizzazione computazionale per prevedere disponibilità e prezzi nei prossimi anni.

Un primo approccio – l'uso del rapporto tra riserve ed estrazioni per individuare le tendenze future – era stato usato parecchi decenni orsono dal leggendario King Hubbert, un geologo dell'U.S. Geological Survey. Vista la particolare natura del petrolio, Hubbert aveva teorizzato la possibilità di calcolare l'intervallo di tempo tra picco massimo dei nuovi ritrovamenti e picco massimo della produzione. E poiché si era reso conto che negli Stati Uniti la scoperta di nuovi giacimenti aveva raggiunto il culmine intorno al 1930, era arrivato alla conclusione che la produzione petrolifera americana avrebbe toccato il vertice nel 1970. E colse nel segno.

Un secondo approccio, estremamente illuminante, divide i principali paesi produttori in due gruppi: quelli in cui le quantità estratte si stanno già riducendo e quelli in cui stanno invece ancora crescendo. Tra i quindici paesi del primo gruppo ritroviamo gli Stati Uniti (il solo, assieme all'Arabia Saudita, che abbia mai superato i 9 milioni di barili al giorno), il Venezuela (che raggiunse il picco già nel 1970), e i due paesi del Mare del Nord, Regno Unito e Norvegia (dove il picco fu invece raggiunto rispettivamente nel 1999 e nel 2000). Le estrazioni nordamericane avevano toccato i 9,6 milioni di barili al giorno nel 1970, per poi scendere a 5,4 milioni nel 2004 (un crollo del 44%); rispetto allo stesso anno, quelle venezuelane si sono ridotte del 31%.

Tra gli otto paesi del secondo gruppo spiccano i due stati che dominano il mercato mondiale - Arabia Saudita e Russia -, il Canada, che grazie alle sue sabbie bituminose ha ancora un grosso margine di aumento, e il Kazakhistan, che deve ancora migliorare lo sfruttamento delle sue riserve. Gli altri quattro stati sono Algeria, Angola, Cina e Messico.

La maggiore incognita in questo secondo gruppo è rappresentata dall'Arabia Saudita, la cui produzione ha raggiunto tecnicamente il punto più alto nel 1980 (con 9,9 milioni di barili al giorno) e si è ora ridotta di circa 1 milione di barili al giorno. Viene indicato tra i paesi con ulteriori possibilità di sviluppo solo perchè i suoi rappresentanti affermano che sarebbe possibile estrarre molto più petrolio. Alcuni analisti si domandano però se i Sauditi potrebbero veramente fare più di quanto non stiano già facendo oggi: buona parte dei giacimenti più vecchi sono parzialmente esauriti, ed è da dimostrare che le estrazioni in quelli nuovi saranno sufficienti a controbilanciare le perdite dei vecchi.

L'analisi ci spinge a chiederci se le estrazioni negli otto paesi che ancora non hanno raggiunto il picco potrà davvero arrivare a bilanciare il declino negli altri 15, in cui il picco è stato invece superato. In termini di volume, i due gruppi hanno grosso modo la stessa capacità; ma se la produzione comincerà a diminuire in uno qualsiasi degli otto stati, diminuirà anche a livello mondiale.

Un terzo approccio consiste nello studiare il comportamento delle stesse aziende petrolifere. Alcuni dirigenti sono estremamente decisi nel parlare di futura crescita, ma il loro modo di fare lascia pensare a previsioni meno rosee.

Una prova è la decisione delle principali aziende del settore d'investire pesantemente per ricomprare i propri stock: la ExxonMobil, che ha fatto registrare profitti trimestrali superiori a quelli di qualsiasi altra industria sul mercato (8,4 miliardi di dollari nell'ultimo trimestre 2004), ha investito quasi 10 miliardi di dollari per ricomprare il proprio stock, e la ChevronTexaco ha usato 2,5 miliardi di dollari dei suoi profitti per fare la stessa cosa. Con poco petrolio ancora da scoprire e una domanda mondiale in rapida crescita, le aziende sembrano aver capito che le riserve nelle loro mani acquisteranno sempre più valore in futuro.

Un secondo fattore strettamente legato al primo è la sostanziale stagnazione di ricerca e sfruttamento nel 2005, anche in presenza di prezzi ben superiori ai 50 dollari a barile. Sembra quindi che le società petrolifere siano d'accordo con i geologi, secondo i quali il 95% di tutto il petrolio mondiale è già stato scoperto.

“Tutto il mondo è stato oramai esplorato e depredato”, afferma il geologo indipendente Colin Campbell, “Le conoscenze geologiche sono enormemente aumentate negli ultimi 30 anni, e la scoperta di nuovi grandi giacimenti è praticamente impossibile”. E questo significa anche che per trovare il 5% di petrolio restante bisognerà spendere parecchio in ricerche e trivellazioni.

La riduzione delle riserve si nota chiaramente nel rapporto tra nuove scoperte petrolifere e produzione delle maggiori compagnie: Royal Dutch/Shell, ChevronTexaco, e Conoco-Phillips, tra le altre, hanno dichiarato che nel 2004 la loro produzione ha superato di molto le nuove scoperte. A livello mondiale, il geologo Walter Youngquist, autore di "GeoDestinies: The Inevitable Control of Earth Resources Over Nations and Individuals", fa notare che nel 2004 il mondo ha prodotto 30,5 miliardi di barili di petrolio, ma ha scoperto nuovi giacimenti per soli 7,5 miliardi di barili.

Tra i fattori in grado d'influenzare la situazione nei prossimi anni, il più difficile da misurare è quello che chiamo la “contrazione psicologica”. Quando le compagnie petrolifere, o i paesi esportatori, si renderanno conto che la produzione sta raggiungendo il massimo, cominceranno a riflettere su come far durare di più le riserve di cui dispongono. E quando risulterà chiaro che un taglio anche moderato del prodotto immesso sul mercato può raddoppiare il prezzo mondiale del petrolio, il valore a lungo termine dei loro stock salterà agli occhi.

L'evidenza geologica suggerisce che la produzione mondiale di petrolio non tarderà a raggiungere il picco. A proposito dei nuovi giacimenti, Matt Simmons, capo della banca di investimenti petroliferi "Simmons and Company International" e eminente uomo d'affari, afferma: “Abbiamo finito i buoni progetti. Non è un problema di soldi...se le compagnie petrolifere avessero qualche progetto veramente buono ci si sarebbero già buttati sopra [per sfruttare i nuovi giacimenti]”. Kenneth Deffeyes, geologo molto rispettato ed ex dipendente del settore petrolifero, oggi alla Princeton University, dichiara nel suo libro "Beyond Oil", pubblicato nel 2005: “Sono convinto che il picco verrà raggiunto a fine 2005, o nei primi mesi del 2006”. Walter Youngquist e A.M. Samsan, della Bakhtiari of the Iranian National Oil Company, sono entrambi sicuri che il picco si avrà nel 2007.

Sadad al-Husseini, che ha da poco cessato la sua funzione di capo della ricerca e produzione alla Aramco, la compagnia petrolifera statale saudita, rileva che il petrolio di nuova estrazione immesso sul mercato dovrebbe poter coprire sia la crescita della domanda mondiale (almeno 2 milioni di barili al giorno) che il declino della produzione nei giacimenti attuali (oltre 4 milioni di barili al giorno). “E questo significa una nuova Arabia Saudita ogni due anni”, dichiara Husseini, “Non è possibile”.

fonte: http://www.wwf.it/

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