In futuro India e Pakistan in guerra per l'acqua

«La prossima guerra con l’India non sarà combattuta per la terra. Sarà combattuta per l’acqua». Muhammad Ilyas non è un professore di relazioni internazionali, non fuma la pipa e non è seduto su una poltrona di pelle in un think tank di Washington. Di professione fa il contadino e quando pronuncia queste parole lo fa sdraiato su un charpoy, il letto di corda tipico delle regioni rurali del subcontinente, aspirando da una hookah riccamente decorata. Eppure la sua profezia è meno stravagante di quanto lasci intendere il contesto in cui viene pronunciata. E, non a caso, nel crocchio di persone che nel frattempo ci si è stretto intorno, suscita più di un mormorio di approvazione. Perché in questo villaggio del profondo Pakistan rurale lo sanno tutti che l’acqua è importante quanto l’aria, che ce n’è sempre di meno e che in giro si dice sempre più spesso proprio quella cosa lì: che la colpa è degli indiani.

La verità è che dietro la devastante crisi idrica in corso in Pakistan c’è anche – ma non solo – la questione parzialmente irrisolta di come i due grandi paesi nati al tramonto dell’impero britannico debbano spartirsi le acque dei fiumi che li attraversano. Il tema è tornato di attualità negli ultimi mesi quando i negoziatori di Islamabad e New Delhi sono tornati a scontrarsi. Oggetto della disputa il diritto dell’India a deviare il corso di un fiume, il Kishenganga, pochi
chilometri prima che entri in territorio pakistano dove cambia nome in Neelum e confluisce, dopo essersi unito al Jhelum e al Chenab, nell’Indo. New Delhi vorrebbe che le acque, prima di varcare il confine, alimentassero le turbine di una centrale idroelettrica indiana da 330 megawatt di prossima costruzione. Islamabad si oppone per due motivi: la deviazione lascerebbe a secco una parte del suo territorio e impedirebbe a quelle stesse acque di alimentare una futura centrale idroelettrica pakistana da 969 Mw la cui costruzione è già stata appaltata a un consorzio di società cinesi.

I negoziati tra i due paesi, basati sull’interpretazione dell’Indus Water Treaty del 1960, non hanno portato a nulla. E così Islamabad ha deciso di chiedere l’intervento di una corte arbitrale che potrebbe impiegare anni a stabilire torti e ragioni. Nel frattempo le ferite aperte da questa e altre dispute sono destinate a incancrenirsi perché, come spiega Douglas Hill, un ricercatore dell’Università di Otago in Nuova Zelanda, «l’Asia del Sud è potenzialmente una delle regioni dove in futuro vedremo il maggior numero di dissensi sulla questione dell’acqua». I motivi sono chiari: le pressioni demografiche sulle reti idriche ed elettriche stanno aumentando in tutti i paesi della regione e, secondo la rivista Science, l’Indo sarà il fiume himalayano che soffrirà maggiormente dei cambiamenti climatici. In un quadro così cupo non stupisce che qualcuno, sul fronte pakistano, abbia iniziato a sentire l’odore del sangue.

Quel qualcuno si chiama Jamaat-ud-Dawa ed è una a dir poco ambigua charity islamica, nata dalle ceneri di Lashkar-e-Taiba (una delle più note organizzazioni terroristiche pakistane) e accusata dall’India di avere pianificato gli attacchi di Mumbai del novembre del 2008. Nei mesi scorsi gli attivisti di J-ud-D ancora a piede libero hanno accusato il governo di New Delhi di rubare l’acqua ai pakistani e quello di Islamabad di non fare abbastanza per difendere gli interessi dei propri cittadini.

Il bersaglio delle loro invettive si chiama Jamaat Ali Shah, il funzionario dai modi fermi e pacati che presiede la Pakistan Indus Water Commission e che ha il compito di trattare con gli indiani sul numero crescente di contese idriche che li dividono. «Ognuno ha le proprie strategie propagandistiche», risponde laconico quando gli chiediamo cosa pensi del fatto di essere stato definito «un agente indiano». Dopodiché, spostando il discorso su argomenti che sembrano interessarlo di più, inizia a enumerare i motivi per cui l’India starebbe tradendo lo spirito dell’Indus Water Treaty: non solo per l’intenzione di deviare un fiume assegnato al Pakistan, ma anche per quello che Shah chiama «degrado ambientale». «Ciò che l’India sta facendo al di là della Linea di controllo (il confine provvisorio tra i due paesi che attraversa il Kashmir, ndr) è destinato ad avere conseguenze serie sul Pakistan. Il bacino di drenaggio dei nostri fiumi si trova sul loro territorio e la deforestazione in corso per far posto a strade, canali e decine di dighe è destinata ad aumentare sensibilmente la quantità di detriti che scenderanno a valle con la nostra acqua».

Un calo, anche marginale, nell’approvvigionamento idrico del Pakistan rischia di avere conseguenze serie a ogni livello: energetico, agricolo e politico. Non è un caso che a luglio i giornali pakistani si siano occupati per settimane di una disputa tra le province del Sindh e del Punjab per l’apertura di un canale, risolta solo dall’intervento del primo ministro. Tensioni acuite dal desolante spettacolo, mai metabolizzato del tutto, degli (ex) fiumi che l’Indus Water Treaty assegna all’India. Il Sutlej, per esempio, oggi non è che una distesa di sabbia incongruamente attraversata da grandi ponti, mentre «una volta qui si faceva il bagno» racconta Francis Daniel, un abitante di Bahawalpur, una città nel sud del Punjab che oggi si affaccia sul deserto.

Limitarsi a incolpare l’India di interpretare a proprio favore i passaggi più controversi dell’Indus Water Treaty sarebbe però un imperdonabile segno di strabismo. Anche perché, sul fronte interno pakistano, le colpe non mancano. Soprattutto per lo stato di degrado di una rete idrica che negli anni 50 garantiva 5mila metri cubi per abitante e oggi, dopo decenni di incuria, disperde il 40% dell’acqua che trasporta, garantendo meno di 1.500 metri cubi pro capite.

Un problema acuito dal fatto che in province come il Sindh e il Punjab continuano a dominare logiche feudali, che fanno sì che la poca acqua disponibile venga dirottata verso i campi dei proprietari terrieri più ricchi e potenti. E che, nonostante questo, il governo continui a esigere da tutti il pagamento delle tasse per il mantenimento dei canali. «Il capo del mio villaggio si è rifiutato di pagare ed è ricercato dalla polizia, mentre quello del villaggio vicino è già stato arrestato», spiega Shah Muhammad, un abitante ultraottantenne di Ghari Mumbrian. «So che sembrerà strano – aggiunge – ma comincio a pensare che qui si vivesse meglio durante il British Raj».

IL SOLE 24 ORE

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